Era un freddo novembre quello del 1930, quando Lelio Volponi, originario della provincia di Brescia, arrivò alla stazione di Maccarese con la sua famiglia. Niente valigie con sé, perché sarebbero arrivate dopo una settimana, ma la speranza di avere finalmente una casa e un lavoro per sfamare la numerosa prole. Entrambi vedovi, Lelio e Teresa definivano scherzosamente “i mia, i tua e i nostra” i loro 12 figli: Natale, Giovanni, Fausto, Giulio e Lucia erano infatti nati dal precedente matrimonio di lui; Francesco, Giuseppe e Anna erano invece figli di primo letto di Teresa a cui si erano aggiunti poi i bambini avuti insieme: Luigi, Rosa, Linda e il piccolo Abramo.
Di questi solo Rosa, anzi Rosi come tutti la conoscono a Maccarese, può raccontarci oggi com’era questo luogo quasi un secolo anni fa.
“Anche se avevo solo 7 anni – racconta con gli occhi intrisi di ricordi – rammento tanti particolari del nostro arrivo. Qui non c’era nulla, le uniche case già costruite erano quelle del centro 36 e alcune costruzioni in piazza a Maccarese, dove c’era un bel giardino con i garofani bianchi. Ci sono venuti a prendere alla stazione con un carro per portarci al centro 32; nel tragitto ricordo tanti rotoli di filo lungo la strada sterrata, servivano per creare i filari dei vigneti che gli operai baresi stavano preparando e dove i miei fratelli più grandi avrebbero presto lavorato”.
Con l’emozione viva nella voce, Rosi continua raccontando anche degli enormi mucchi di terra che gli “scarriolanti” spianavano faticosamente, trasformando le terre umide che la bonifica aveva sottratto alla palude in campi fertili da coltivare.
“Ci avevano dato due stanze in un casale – continua a ruota libera – che all’inizio erano completamente vuote. In cucina c’era solo un grande camino dove cucinavamo e ci scaldavamo, mentre per dormire la mamma aveva riempito di fieno i “paglioni” (n.d.r. pagliericci, sacconi di iuta) che fungevano da materassi. E si mangiava quello che c’era, spesso minestra o polenta, ma anche fettuccine e spaghetti fatti in casa. Mia mamma raccoglieva spesso un’erba buona sotto i filari della vigna, che poi cucinava per noi. La domenica qualche volta mio padre comprava la testa di una mucca, la divideva in quattro e facevamo il brodo… era una vera festa!”
Anche della scuola Rosi ricorda tutto limpidamente: prima che venisse costruita la Marchiafava, le lezioni si tenevano in due stanze dove oggi si trova l’Associazione Combattenti, solo più tardi alcuni bambini furono spostati nel castello. “In realtà io andavo già in seconda elementare a Roccafranca (BS), ma quando sono arrivata qui mi hanno rimandata in prima, perché conoscevo solo il bresciano e non sapevo parlare italiano!” aggiunge con un accento che non tradisce le sue origini nordiche.
Infine le chiediamo com’era il rapporto fra le persone.
“Non avevamo niente, ma ci volevamo bene e ci aiutavamo a vicenda. Il clima in casa e sul lavoro era sempre allegro e scherzoso”.
Forse è proprio questa la chiave della felicità di questa storica maccaresana ultranovantenne, nota ai più per le sue divertenti barzellette sul pullman delle gite, che ha sempre affrontato le prove della vita con una fede salda e tanta ironia.
Lunga vita a te Rosi, vogliamo festeggiare i tuoi 100 anni!
2016-01-08